Sentenza n. 197 del 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, inserito dall’art. 11, comma 1, lettera c), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), promossi dalla Corte d’assise di Cagliari con ordinanza del 16 novembre 2022 e dalla Corte d’assise d’appello di Torino, sezione prima, con ordinanze del 4 e del 10 maggio 2023, iscritte, rispettivamente, al n. 151 del registro ordinanze 2022 e ai numeri 87 e 88 del registro ordinanze 2023 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2022 e n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti gli atti di costituzione di P. R. e di M. P., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 ottobre 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Luca Salvatore Pennisi per P. R. e Federico Squartecchia per M. P., e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 10 ottobre 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 16 novembre 2022 (r.o. n. 151 del 2022), la Corte d’assise di Cagliari ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, inserito dalla legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, censurandolo «nella parte in cui impedisce il giudizio di prevalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., della circostanza attenuante della provocazione rispetto alla circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio volontario, in relazione al fatto commesso contro il coniuge, dall’art. 577 comma 1 n. 1) c.p.».

1.1.– La Corte d’assise rimettente è giudice nel procedimento a carico di P. R., imputato del delitto di cui agli artt. 575 e 577, primo comma, numero 1), cod. pen. perché, nel corso di una lite familiare, con ripetute coltellate inferte al torace, alle braccia e al collo, cagionava la morte della moglie A. S.

Riferisce la Corte rimettente come all’esito dell’istruttoria – consistita nell’esame dell’imputato e nell’acquisizione, su accordo delle parti, degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero – sia emerso che P. R., sessantasettenne al momento del fatto, ha cagionato la morte della moglie sessantenne con le modalità indicate nel capo di imputazione. Egli ha, peraltro, ammesso sin da subito la propria responsabilità dinnanzi alle forze dell’ordine da lui stesso allertate, e ha poi ribadito la sua confessione durante l’interrogatorio di convalida dell’arresto e, infine, di fronte alla stessa Corte d’assise.

1.1.1.– Il giudice a quo dedica una particolare attenzione alla ricostruzione del contesto familiare in cui è maturato il delitto, oltreché all’illustrazione della sua precisa dinamica.

Espone, segnatamente, che la vittima dell’omicidio – A. S. – soffriva da circa dieci anni di un grave disturbo bipolare di tipo borderline, cui si aggiungeva, nei mesi precedenti al delitto, un problema di alcolismo. Pur essendo in cura presso un centro di salute mentale, A. S. si rifiutava sovente di assumere la terapia farmacologica che le era stata prescritta e, più volte, nel corso degli anni, aveva cercato di togliersi la vita. L’ultimo intervento delle forze dell’ordine per sventare un suo tentativo di suicidio si era verificato appena venti giorni prima del delitto e, da allora, si erano intensificate le preoccupazioni dei familiari per il suo benessere fisico, oltreché mentale. Lo stato di salute di A. S. si era, infatti, aggravato da quando assumeva sostanze alcoliche e, dopo il fallito suicidio, il costante stato di angoscia, aggressività e tensione in cui versava le impediva di prendere sonno, costringendo anche i familiari – anzitutto il marito, che più si prendeva cura di lei – a non dormire, per il timore di ulteriori gesti autolesionistici.

Espone, altresì, il giudice a quo che le testimonianze dei figli della coppia, del fratello e della sorella della vittima, dei conoscenti e dei vicini di casa sentiti nel corso delle indagini descrivono l’imputato come una persona mite, dedita alla cura della moglie nonostante la situazione di gravissimo disagio, a più riprese definita come «ingestibile».

Secondo quanto emerge dagli atti processuali, così come ricostruiti dall’ordinanza di rimessione, il giorno dell’omicidio A. S. aveva di nuovo aggredito verbalmente il marito, nonché la figlia e i nipotini con lei conviventi, minacciando nuovamente di togliersi la vita. La figlia si era allontanata con i bambini e aveva telefonato a una serie di numeri di emergenza, anche perché si udivano provenire dal piano superiore rumori di mobili rovesciati e suppellettili infrante. In effetti, A. S. aveva preso a lanciare oggetti e a sbattere il tavolino sui mobili del soggiorno, e aveva ordinato al marito di mettere tutti gli oggetti personali della figlia in una busta e di portarli via. Al rifiuto del marito, gli aveva lanciato contro un piatto e, girandosi verso il cassetto dei coltelli, aveva minacciato di ucciderlo.

In base alle dichiarazioni dell’imputato, egli si sarebbe a questo punto alzato per cercare di fermarla. L’uomo affermava poi di non ricordare più nulla, sino al momento in cui – vedendo la moglie riversa in una pozza di sangue – aveva telefonato prima alla figlia, confessando l’omicidio e pregandola di non salire al piano di sopra, e poi ai carabinieri.

1.1.2.– Così ricostruiti i fatti, il giudice a quo ritiene sussistenti i presupposti per riconoscere all’imputato le circostanze attenuanti generiche, valorizzando tra l’altro le difficili condizioni di vita di P. R., come rappresentate da tutti i testimoni sentiti nel corso delle indagini; la sua incensuratezza; l’immediata ammissione delle proprie responsabilità; il suo cooperativo comportamento processuale.

La Corte rimettente ritiene altresì di dover riconoscere all’imputato l’attenuante della provocazione, di cui all’art. 62, primo comma, numero 2), cod. pen., avendo egli agito in uno stato d’ira, determinato dal fatto ingiusto costituito dal comportamento della moglie.

Secondo il giudice a quo, infatti, la lunga scia di aggressioni verbali e atti di violenza posti in essere da A. S. aveva innescato in P. R. una «tangibile esasperazione» qualificabile come stato d’ira, ben potendo tale stato psichico essere «costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il fatto ingiusto altrui». Osserva altresì il rimettente che l’ulteriore requisito del fatto ingiusto altrui «deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali o sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale» (è citata Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 25 settembre-13 dicembre 2017, n. 55741), senza che rilevino le condizioni psicologiche del suo autore (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 27 marzo-16 aprile 2012, n. 14270). Nel caso di specie, dovrebbe in particolare essere ritenuta la sussistenza di una «provocazione “per accumulo”», essendo la reazione dell’imputato esplosa a distanza di tempo «in occasione di un episodio scatenante, quale conseguenza di un progressivo rancore determinato dalla reiterazione di comportamenti ingiusti».

Prosegue dunque la Corte rimettente osservando che la finalità di adeguare la pena al caso concreto dovrebbe, nel caso in esame, essere raggiunta mediante un giudizio di prevalenza dell’attenuante della provocazione sull’aggravante del rapporto di coniugio, dovendo invece le attenuanti generiche essere considerate equivalenti rispetto a tale aggravante.

A tale risultato non sarebbe però possibile pervenire stante il disposto dell’art. 577, terzo comma, cod. pen.: dal che la rilevanza delle questioni.

1.1.3.– Queste ultime – prospettate peraltro dallo stesso pubblico ministero, cui si è associata la difesa dell’imputato – sarebbero, altresì, non manifestamente infondate.

Anzitutto, in giudice a quo rammenta che la disposizione censurata è stata introdotta dalla legge n. 69 del 2019, la cui complessiva ratio di tutela sarebbe individuabile nella «necessità di offrire una risposta severa dell’ordinamento rispetto a quei fenomeni criminali caratterizzati dal collegamento tra l’azione omicidiaria e un rapporto di prevaricazione e di forza fondato sul genere, normalmente rinvenibile nell’uccisione della donna da parte del suo compagno».

Sarebbe però «fondamentale distinguere tra uccisioni di donne e femminicidi: non ogni omicidio di donna rientra in tale particolare, seppur ricorrente, fattispecie». Di conseguenza, sarebbe necessario chiedersi «se l’articolo 577, n. 3), cod. pen. non sia stato frutto di una risposta sanzionatoria che […] rischia di coinvolgere fenomeni di portata assai diversa», come del resto molto diversi sono i rapporti familiari ricompresi nel catalogo di cui all’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen.

Ciò comporterebbe il rischio che l’aggravamento di pena operi in una situazione diametralmente opposta rispetto a quelle che il legislatore intendeva sanzionare con particolare rigore. Infatti «il soggetto che ha commesso l’omicidio nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto della vittima era anche quello che, nel corso della convivenza coniugale, per concordanti risultanze testimoniali, aveva subito in plurime occasioni le aggressioni e gli scatti collerici del coniuge e, nonostante ciò, non lo aveva abbandonato, ma protetto sotto ogni aspetto, persino da azioni autolesionistiche». Il caso in esame non avrebbe quindi «nulla a che fare con una vicenda di sopraffazione di genere», costituendo invece «il drammatico sbocco di una storia familiare afflitta da una carica di sofferenza e frustrazione, ben descritta dai testimoni escussi». L’applicazione della disposizione censurata al caso di specie presenterebbe, dunque, «profili di illegittimità costituzionale in relazione al principio di uguaglianza e alla funzione di proporzionalità e di rieducazione della pena».

Con riferimento specifico all’art. 3 Cost., il rimettente rileva ancora che negare alla circostanza attenuante della provocazione la possibilità di prevalere sull’aggravante del coniugio presenterebbe elementi di «ingiustificabile disarmonia» rispetto alla previsione legislativa che consente, invece, tale prevalenza nel caso della diversa circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale (art. 61, primo comma, numero 1, cod. pen.), «oggettivamente estranea anch’essa alla ratio dell’inasprimento introdotto dal “Codice Rosso”».

La Corte rimettente lamenta, infine, una violazione dell’art. 27 Cost., poiché una pena compresa fra ventuno e ventiquattro anni di reclusione risulterebbe assolutamente sproporzionata rispetto alla complessiva valutazione del fatto, impedendo al trattamento sanzionatorio di esplicare la propria funzione rieducativa. Il giudice a quo rammenta, a tal fine, il nutrito numero di sentenze in cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di deroghe all’ordinario giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., anche con riferimento a circostanze attenuanti comuni (sono citate le sentenze n. 55 del 2021, n. 73 del 2020, n. 205 del 2017, n. 74 del 2016, n. 105 e n. 106 del 2014, n. 251 del 2012), nonché alcune pronunce nelle quali questa Corte ha rimarcato come la pena debba essere adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018) e come tale disvalore dipenda anche dall’eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile (sentenza n. 73 del 2020).

1.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate manifestamente infondate in riferimento a entrambi i parametri costituzionali evocati.

1.2.1.– L’interveniente – dopo aver dato conto dei dati statistici sugli omicidi in ambito familiare degli ultimi anni (dal 2019 al 2022), al fine di ribadire l’opportunità dell’intervento normativo realizzato con la legge n. 69 del 2019 – osserva come la Corte rimettente non abbia colto nella sua interezza la portata dell’intervento normativo, né i suoi fondamenti criminologici e sociologici. Più in particolare, l’interveniente osserva come «nella cultura umana i crimini che offendono i vincoli di sangue sono archetipi esistenti nella memoria collettiva arcaica dell’umanità da sempre»; il divieto di prevalenza delle eventuali attenuanti generiche sull’aggravante del rapporto familiare avrebbe dunque una solida base giuridica e antropologica, e non potrebbe essere tacciato di irragionevolezza interna o abnormità.

1.2.2.– Con riferimento poi alla circostanza attenuante della provocazione, l’interveniente nega che essa possa ritenersi espressiva di un minor disvalore del fatto, dal punto di vista della sua dimensione offensiva, ovvero di una minor rimproverabilità soggettiva dell’autore. Né sarebbe plausibile una sua equiparazione ai motivi di particolare valore morale o sociale, «attesa la disomogeneità delle situazioni giuridiche poste a raffronto, ben diverse le une dalle altre».

1.2.3.– In relazione, infine, alla censura relativa alla sproporzione della pena e alla sua pretesa contrarietà al principio di rieducazione, l’interveniente sottolinea che le censure del rimettente «impingono ad un mero giudizio di valore sul minimo della pena edittale prevista per l’omicidio volontario del tutto irrilevante posto che il maggiore o minore disvalore penale e la relativa pena minima e/o massima viene valutato discrezionalmente dal Legislatore ed è insindacabile ove non presenti manifesta arbitrarietà, irragionevolezza o sproporzione delle sanzioni». La pena minima di ventun anni di reclusione sarebbe, d’altra parte, «in linea con una tradizione giuridica ultracentenaria e ben coerente per il contrasto attuale dell’emergenza sociale e criminale che i reati d’omicidio commessi in ambito familiare o di genere producono nella collettività».

1.3.– L’imputato nel giudizio a quo si è costituito in giudizio a mezzo del proprio difensore, il quale – tanto nell’atto di costituzione, quanto nella memoria depositata in prossimità dell’udienza – ha invece chiesto l’accoglimento delle questioni prospettate.

La parte rimarca, in particolare, come la disposizione di cui all’art. 577, terzo comma, cod. pen. violi:

– i principi di proporzionalità e uguaglianza, poiché impone che la pena irrogabile non possa essere mai inferiore a ventun anni di reclusione, pur in presenza di fattispecie concrete del tutto differenti fra loro;

– i principi di uguaglianza e rieducazione, poiché l’indiscriminata applicazione della medesima cornice edittale a fenomeni assai diversi fra loro e, segnatamente, a fattispecie concrete la cui gravità sia notevolmente attenuata sotto il profilo soggettivo comporta l’inflizione di una pena sproporzionata, e dunque percepita come ingiusta dal condannato;

– il principio di ragionevolezza, poiché – a fronte della necessità di prevenire, e non già di punire più severamente, i fenomeni della violenza di genere e domestica, che sarebbe alla base dell’intervento normativo del 2019 – «una smisurata amplificazione, in chiave deterrente, della finalità general-preventiva della pena […] avendo a che fare con la fase della punizione, dispiega effetti di prevenzione pressoché nulli, implicando però un rilevantissimo sacrificio del principio di uguaglianza e del principio di proporzionalità della pena».

2.– Con ordinanza del 4 maggio 2023 (r.o. n. 87 del 2023), la Corte d’assise d’appello di Torino, sezione prima, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, dell’art. 577, terzo comma, cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., censurandolo «nella parte in cui impedisce il giudizio di prevalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante della provocazione rispetto alla circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio volontario, in relazione al fatto commesso contro l’ascendente dall’art. 577 comma 1 n. 1) del codice penale».

2.1. – La Corte rimettente è giudice d’appello nel procedimento a carico di A. C., imputato del delitto di cui agli artt. 575 e 577, primo comma, numero 1), cod. pen. perché, con condotta consistita nello sferrare numerose ripetute coltellate l’indirizzo del padre, G. P., colpendolo in zone vitali del corpo, ne aveva cagionato il decesso.

In primo grado, la Corte d’assise di Torino, con sentenza del 24 novembre 2021, aveva assolto l’imputato perché il fatto non costituisce reato, ritenendo integrata la scriminante della legittima difesa. Investito dell’appello da parte del pubblico ministero, il giudice a quo ritiene invece di dover affermare la penale responsabilità di A. C. per omicidio volontario, non reputando sussistente la legittima difesa, nemmeno nella forma putativa.

2.1.1.– Più precisamente, il rimettente ricostruisce la vicenda nei termini seguenti.

L’imputato, diciottenne, viveva con il padre, la madre e il fratello. Il padre teneva da anni un comportamento persecutorio e intimidatorio nei confronti dei familiari, e in particolare della moglie, il che aveva indotto i due ragazzi ad assumere il ruolo di «custodi» della madre. L’imputato e suo fratello, infatti, si erano fatti carico della protezione della donna, cercando di non lasciarla mai sola e di difenderla dalle più gravi aggressioni del marito.

Secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, il giorno dell’omicidio, G. P. – geloso di un collega della moglie – aveva atteso il rientro a casa della donna dal lavoro per aggredirla verbalmente, e aveva quindi continuato a insultarla e minacciarla anche nel corso della cena, durante la quale aveva bevuto vino in quantità tale da ubriacarsi. Si era quindi ritirato nella propria camera, dalla quale era uscito proferendo nuovi insulti e minacce nei confronti della moglie. Si era allora diretto verso di lei con fare aggressivo ma era stato fermato dai figli, con i quali si era verificata una prima colluttazione. G. P. aveva, a questo punto, invitato i figli ad andarsene e si era diretto verso la cucina. L’imputato sostiene di aver interpretato tale gesto come un tentativo di raggiungere il cassetto dei coltelli. Riferisce di averlo dapprima seguito, poi spintonato, infine superato e – essendo giunto per primo al cassetto – di averne afferrato uno e di averlo colpito più volte, per proteggere sé e i suoi cari da una imminente aggressione.

La scena del crimine è risultata notevolmente alterata dall’arrivo dei sanitari accorsi alla chiamata dello stesso imputato: si sono potuti ricostruire i segni di una colluttazione, senza che si fosse in grado di determinare se entrambi i soggetti fossero armati. La vittima era stata attinta da trentaquattro coltellate, e sei diversi coltelli, di cui almeno cinque effettivamente utilizzati, erano stati estratti dal cassetto della cucina. I racconti della madre e del fratello avvalorano quello dell’imputato, ma non sono ritenuti del tutto attendibili dai giudici di appello.

La Corte rimettente non ritiene – come avevano opinato i giudici di primo grado – che l’imputato abbia agito nella ragionevole convinzione di non avere altra scelta per impedire al padre di uccidere i suoi familiari. Afferma, invece, che nel caso di specie non vi sarebbe spazio per riconoscere la scriminante della legittima difesa neppure nella forma putativa, in considerazione di una serie di elementi dai quali sarebbe possibile desumere la sussistenza di un pericolo non imminente e di una reazione non necessaria e sproporzionata. Il rimettente sottolinea, in proposito, che «la rappresentazione, meramente congetturale e astratta, della generica possibilità, nell’immediato futuro, della perpetrazione di atti di violenza da parte della vittima non integra […] l’ipotesi contemplata dall’art. 52 c.p. [né quella putativa] di cui all’art. 59 c.p.».

2.1.2.– Qualificato dunque il fatto come omicidio volontario, il giudice a quo ritiene tuttavia che debbano riconoscersi all’imputato tanto le circostanze attenuanti generiche – in ragione della giovanissima età e del corretto comportamento processuale tenuto da A. C., del suo stato di incensuratezza e del contesto nel quale il fatto era maturato – quanto l’attenuante del vizio parziale di mente (art. 89 cod. pen.), in ragione della patologia accertata sull’imputato da una perizia psichiatrica effettuata in primo grado, la quale aveva ravvisato un «disturbo di adattamento post traumatico», e in particolare una «condizione stress-reattiva» che comportava «una compromissione del sentimento di realtà sotto una spinta ansioso-interpretativa», derivante dalla situazione da lui vissuta in casa, e in grado di scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere.

Secondo il giudice a quo, sarebbe altresì ravvisabile una provocazione «per accumulo», avendo l’imputato agito in stato d’ira in conseguenza del fatto ingiusto altrui.

Le tre attenuanti dovrebbero, a giudizio della Corte rimettente, reputarsi prevalenti rispetto all’aggravante di cui al primo comma dell’art. 577 cod. pen.

Tuttavia, la disposizione censurata consentirebbe di ritenere prevalente il solo vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen.; dal che la rilevanza delle questioni.

2.1.3.– Con riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni medesime, l’ordinanza denuncia il contrasto della disposizione censurata con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost.

Dopo aver rammentato la giurisprudenza costituzionale in materia di limiti al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., il giudice a quo appunta le sue censure, anzitutto, sull’impossibilità di tener conto – nella graduazione della sanzione da infliggersi concretamente – della circostanza attenuante della provocazione «nel rispetto dell’esigenza di rango costituzionale di determinare una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo e sul suo grado di rimproverabilità».

Il divieto di prevalenza di cui all’art. 577, terzo comma, cod. pen. apparirebbe, inoltre, «ulteriormente distonico rispetto al sistema, ove si consideri il panorama socio-culturale nel quale si inseriva e la ratio che animava la norma che lo ha introdotto», identificata nella «necessità di offrire una risposta severa a quei fenomeni criminali caratterizzati dal collegamento tra l’azione omicidiaria e un rapporto di prevaricazione e di forza fondato sul genere, normalmente rinvenibile nell’uccisione della donna da parte del suo compagno». Poiché la disposizione censurata non consente al giudice la possibilità di valutare, in concreto, se l’omicidio sia stato effettivamente conseguenza di rapporti di forza diseguali o comunque asimmetrici tra agente e vittima, i limiti al bilanciamento di circostanze si applicherebbero anche in situazioni diametralmente opposte a quelle considerate dal legislatore.

La disposizione sarebbe costituzionalmente illegittima anche nella parte in cui preclude la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, le quali rappresenterebbero «uno strumento di individualizzazione della risposta sanzionatoria lì dove sussistano – in positivo – elementi del fatto e della personalità, tali da rendere necessaria la mitigazione, non previsti espressamente da altra disposizione di legge» (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 ottobre 2018-15 maggio 2019, n. 20808). Anche tali circostanze contribuirebbero, dunque, a quell’adeguamento della risposta punitiva al mandato costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. (è citata la sentenza n. 183 del 2011 di questa Corte).

2.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate manifestamente infondate in riferimento a entrambi i parametri costituzionali evocati, sulla base delle medesime argomentazioni esposte nell’atto di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 151 del r.o. 2022.

2.3.– M. P., fratello della vittima e parte civile nel giudizio a quo, si è costituito in giudizio a mezzo del difensore, il quale nella propria memoria ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale vengano accolte, con riferimento al solo divieto di prevalenza della circostanza attenuante della provocazione, e vengano invece rigettate con riferimento al divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.

In effetti, non apparirebbe «arbitraria e irragionevole la previsione legislativa del divieto di prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti in esame, poiché il giudizio di equivalenza consente già un concreto adeguamento della pena, impedendo l’irrogazione dell’ergastolo». Sarebbe invece «foriera di esiti sanzionatori sproporzionati» la scelta legislativa di non ricomprendere fra le deroghe al bilanciamento anche l’attenuante della provocazione, in quanto non consentirebbe «di adeguare concretamente la pena alla gravità del reato, che deve essere valutata tenendo conto dell’offensività del fatto e della rimproverabilità soggettiva del suo autore».

3.– Con ordinanza del 10 maggio 2023 (r.o. n. 88 del 2023), la medesima Corte d’assise d’appello di Torino, sezione prima, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, cod. pen., con riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., censurandolo «nella parte in cui impedisce il giudizio di prevalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante della provocazione rispetto alla circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio volontario, in relazione al fatto commesso contro il coniuge dall’art. 577 comma 1 n. 1 del codice penale».

3.1. – La Corte rimettente è giudice d’appello nel procedimento a carico di A. B., imputata del delitto di cui agli artt. 575 e 577, primo comma, numeri 1) e 2), cod. pen. perché, somministrando al marito L. G. un’intera boccetta di sonnifero e quindi strangolandolo con un laccio per scarpe, ne cagionava la morte.

3.1.1. – Più precisamente, la Corte rimettente ha così ricostruito la vicenda in esame.

L’omicidio si colloca in un contesto di ripetuti e violenti maltrattamenti commessi da L. G. ai danni della moglie, consistiti in percosse dapprima occasionali, poi sempre più frequenti a partire dalla primavera del 2021, allorché il marito, secondo quanto concordemente dichiarato da tutti i testi escussi, aveva cominciato a manifestare problematiche di natura psichica. Tali problematiche avevano comportato che L. G. tenesse comportamenti molesti nei confronti di vicini e familiari. Si erano moltiplicate anche le aggressioni verbali, fisiche e sessuali nei confronti della donna, costantemente minacciata.

In questo clima di esasperazione, il giorno dell’omicidio aveva avuto luogo un litigio, alla presenza dell’imputata, fra L. G. e il figlio della coppia. Si era venuti alle mani: il padre aveva colpito il figlio al volto con una bottiglia di plastica piena d’acqua e quest’ultimo aveva spinto il genitore contro un tavolo, cagionandogli delle lesioni. L. G. aveva richiesto l’intervento dei carabinieri ed era stato portato in ospedale. Si apprende da alcune testimonianze che l’imputata era apparsa visibilmente spaventata e che aveva chiesto ai carabinieri che fosse preso qualche provvedimento nei confronti del marito, di cui aveva raccontato i maltrattamenti. All’invito di recarsi la mattina seguente in caserma a sporgere denuncia, l’imputata avrebbe affermato: «[n]on posso denunciare perché anche se denuncio poi me lo rimandate a casa e lui ci ammazza tutti».

Alla sera L. G. era rientrato a casa, accompagnato dal cognato, che riferisce di avergli sentito affermare, durante il tragitto in macchina, di avere in casa «un coltello da Rambo» che gli sarebbe servito per ammazzare qualcuno, e di avere anche intenzione di procurarsi una pistola presso un’armeria di Genova.

Il cognato era quindi andato via, e la donna era rimasta sola in casa con il marito. Poco dopo, L. G. aveva mostrato alla moglie un messaggio di testo da lui indirizzato al figlio, in cui si esprimeva la volontà di cacciarlo di casa, a causa di ciò che era accaduto. L’imputata aveva cercato di fare ragionare il marito, che aveva reagito strattonandola (il giudice per le indagini preliminari, in sede di convalida dell’arresto, aveva dato atto della sussistenza di un livido sul braccio sinistro dell’imputata) e la aveva ulteriormente minacciata.

A questo punto l’imputata aveva preparato al marito una bibita nella quale aveva versato una intera boccetta di sonnifero. Una volta addormentato, lo aveva strangolato con un laccio di scarpe. Infine aveva lei stessa chiamato i carabinieri, ammettendo subito la propria responsabilità.

3.1.2– Con sentenza del 4 luglio 2022, la Corte d’assise di Alessandria aveva condannato l’imputata alla pena di quattro anni e dieci mesi di reclusione per il delitto di omicidio colposo, ai sensi degli artt. 52 e 59, quarto comma, cod. pen. Il giudice di primo grado aveva infatti ritenuto che nel caso di specie fosse ravvisabile l’ipotesi della legittima difesa putativa, per avere l’imputata agito nell’erronea convinzione di difendere sé e i congiunti dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta da parte del marito, anche in ragione dei pregressi reiterati maltrattamenti.

3.1.3. – Avverso la sentenza avevano proposto appello sia il pubblico ministero, sia il difensore dell’imputata. Di fronte alla Corte d’assise d’appello, le parti avevano dichiarato di concordare sull’accoglimento dei motivi di appello del pubblico ministero, con rinuncia ai motivi della difesa ai sensi art. 599-bis, comma 1, del codice di procedura penale, indicando al giudice una pena rideterminata in sei anni, due mesi e venti giorni di reclusione, ritenute sussistenti le attenuanti cui agli artt. 62, primo comma, numero 1) (per aver agito l’imputata per motivi di particolare valore morale, identificati nella volontà di difendere il figlio), 62, primo comma, numero 2) (provocazione “per accumulo”) e 62-bis cod. pen. (attenuanti generiche), tutte prevalenti rispetto all’aggravante del rapporto di coniugio.

3.1.4.– Il giudice a quo riferisce anzitutto di reputare ammissibile e astrattamente meritevole di accoglimento il concordato formulato in udienza, ricorrendo i presupposti applicativi degli istituti giuridici coinvolti ed essendo la pena congrua rispetto al fatto.

Tuttavia, il rimettente sottolinea di essere tenuto ad operare una verifica circa la legalità della pena concordata – intendendosi per “pena illegale” quella che «si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale perché è diversa per genere per specie o per quantità da quella positivamente prevista» (sono citate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 14 luglio 2022-12 gennaio 2023, n. 877 e sezione sesta penale, sentenza 18 maggio-16 giugno 2022, n. 23614). Tale verifica dovrebbe avere, nel caso di specie, esito negativo. La pena concordata dalle parti dovrebbe infatti ritenersi illegale, perché inferiore al minimo edittale previsto dalla legge per l’omicidio ai danni del coniuge, così come risultante dalla disposizione censurata. Di qui la rilevanza delle questioni.

3.1.5.– Con riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni, l’ordinanza ritiene violati gli artt. 3 e 27 Cost., sulla base di argomenti in larga misura sovrapponibili a quelli già spesi dalla medesima Corte nell’ordinanza iscritta al n. 87 del r.o. 2023.

Con riferimento, in particolare, all’attenuante della provocazione, il giudice a quo lamenta l’impossibilità di irrogare a chi «abbia agito in particolari condizioni emotive incidenti sulla capacità di autocontrollo attribuibili alla condotta della vittima, una pena inferiore a quella che dovrebbe essere inflitta per un reato di pari gravità oggettiva ma commesso da persona che abbia agito in condizioni emotive non alterate dal comportamento ingiusto altrui».

Con riguardo, invece, alle circostanze attenuanti generiche, il giudice a quo si duole dell’impossibilità di valorizzare in modo adeguato elementi positivi emersi a favore dell’imputata, univocamente indicativi di una sua ridotta capacità a delinquere.

3.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate manifestamente infondate in riferimento a entrambi i parametri costituzionali evocati, sulla base delle medesime argomentazioni esposte nell’atto di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 151 del r.o. 2022.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza iscritta al n. 151 del r.o. 2022, la Corte d’assise di Cagliari ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui vieta di considerare prevalente la circostanza attenuante della provocazione di cui all’art. 62, primo comma, numero 2), cod. pen. rispetto alla circostanza aggravante dell’omicidio prevista dall’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen.

Con due distinte ordinanze, iscritte al n. 87 e al n. 88 del r.o. 2023, la prima sezione della Corte d’assise d’appello di Torino ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, con riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui vieta di considerare prevalenti le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen. e della provocazione di cui all’art. 62, primo comma, numero 2), cod. pen. rispetto, anche in questo caso, alla circostanza aggravante dell’omicidio prevista dall’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen.

2.– I tre giudizi sollevano questioni analoghe e meritano, pertanto, di essere riuniti ai fini della decisione.

3.– Le questioni sono ammissibili.

3.1.– La Corte d’assise di Cagliari deve giudicare della responsabilità penale di un uomo imputato del delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen. per avere cagionato la morte della moglie. La Corte rimettente ritiene provato il fatto; e ritiene altresì che debbano essere riconosciute allo stesso tanto le attenuanti generiche quanto quella della provocazione. Quest’ultima attenuante dovrebbe anzi essere giudicata prevalente rispetto all’aggravante del rapporto coniugale; ma a tale prevalenza osta la disposizione censurata. Di qui la rilevanza delle questioni, ampiamente motivate anche in punto di non manifesta infondatezza.

3.2.– Nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 87 del r.o. 2023, la Corte d’assise d’appello di Torino deve giudicare sull’appello proposto dal pubblico ministero contro la sentenza di primo grado che aveva assolto un giovane imputato dall’accusa di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen. per avere cagionato la morte del padre. Anche in questo caso, la Corte rimettente ritiene provato il fatto ed esclude che possa essere ravvisata la legittima difesa, neppure nella forma putativa. Tuttavia, essa ritiene che all’imputato debbano riconoscersi l’attenuante del vizio parziale di mente (art. 89 cod. pen.), le attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.) e l’attenuante della provocazione (art. 62, primo comma, numero 2, cod. pen.). Le tre attenuanti dovrebbero considerarsi prevalenti rispetto all’aggravante contestata; ma un tale giudizio di prevalenza è precluso, per ciò che concerne le ultime due aggravanti, dalla disposizione censurata. Donde la rilevanza delle questioni, pure ampiamente argomentate in punto di non manifesta infondatezza.

3.3.– Infine, nell’ordinanza iscritta al n. 88 del r.o. 2023, la medesima Corte d’assise d’appello di Torino giudica sull’impugnazione di una sentenza di primo grado con la quale una donna è stata condannata per l’omicidio colposo del marito in legittima difesa putativa, così riqualificato il fatto originariamente contestato come omicidio volontario aggravato ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen. Il pubblico ministero e l’imputato, entrambi appellanti, hanno concordato ai sensi dell’art. 599-bis, comma 1, cod. proc. pen. l’accoglimento dell’appello del pubblico ministero relativo alla riqualificazione del fatto come omicidio volontario, e chiesto l’applicazione della pena di sei anni, due mesi e venti giorni di reclusione per effetto del riconoscimento cumulativo delle circostanze attenuanti dei motivi di particolare valore morale e sociale (art. 62, primo comma, numero 1, cod. pen.), della provocazione (art. 62, primo comma, numero 2, cod. pen.) e delle attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.).

La Corte rimettente osserva tuttavia che la prevalenza delle due ultime attenuanti è preclusa dalla disposizione censurata e che, pertanto, la pena concordata dovrebbe considerarsi “illegale”, e non potrebbe come tale essere applicata all’imputata. Di qui la rilevanza – agli specifici fini della verifica che il giudice d’appello è chiamato a compiere sulla legalità della pena concordata dalle parti (in questo senso, Cass., sez. un. pen., n. 877 del 2023) – delle questioni prospettate, anche in questo caso ampiamente argomentate in punto di non manifesta infondatezza.

4.– Conviene premettere all’esame del merito delle questioni una sintetica ricapitolazione del contesto normativo in cui esse trovano collocazione.

4.1.– Il codice penale italiano prevede una figura delittuosa generale per l’omicidio volontario, punito dall’art. 575 cod. pen. con la reclusione «non inferiore ad anni ventuno»: ossia con la pena della reclusione da un minimo di ventuno a un massimo di ventiquattro anni, quest’ultimo risultante dalla regola generale di cui all’art. 23 cod. pen.

Gli artt. 576 e 577 cod. pen. prevedono, poi, numerose circostanze aggravanti, in presenza delle quali è comminata la pena dell’ergastolo, ovvero – nelle ipotesi di cui all’art. 577, secondo comma, cod. pen. – della reclusione da ventiquattro a trent’anni. Al delitto di omicidio sono inoltre applicabili – in particolare – le circostanze aggravanti comuni disciplinate dall’art. 61 cod. pen., le quali sono suscettibili di innalzare la pena base, in assenza delle aggravanti di cui ai menzionati artt. 576 e 577 cod. pen., sino al limite di trent’anni di reclusione (art. 64, secondo comma, cod. pen.).

All’omicidio volontario sono applicabili, d’altra parte, tutte le circostanze attenuanti previste dall’art. 62 cod. pen., nonché le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., ciascuna delle quali determina la diminuzione della pena prevista dall’art. 575 cod. pen. sino al limite di un terzo (art. 65 cod. pen.) rispetto alla pena risultante dalla diminuzione precedente (art. 63, secondo comma, cod. pen.): meccanismo, questo, che consente attenuazioni di pena anche assai significative rispetto al minimo di ventun anni di reclusione previsto, in linea generale, dall’art. 575 cod. pen.

Nel caso poi di concorso tra circostanze aggravanti (comprese quelle di cui agli artt. 576 e 577 cod. pen.) e attenuanti, l’art. 69 cod. pen. dispone che il giudice debba effettuare un giudizio di bilanciamento tra di esse, che consiste in sostanza nella determinazione di quali siano le circostanze – aggravanti o attenuanti – che “pesano” maggiormente nella valutazione del fatto. Tre i possibili esiti: in caso di prevalenza delle aggravanti, il giudice applicherà unicamente gli aumenti di pena da esse previsti, senza applicare alcuna diminuzione per le attenuanti, pur ritenute esistenti (art. 69, primo comma, cod. pen.); nel caso opposto di prevalenza delle attenuanti, il giudice applicherà unicamente le correlative diminuzioni di pena (art. 69, secondo comma, cod. pen.); mentre nell’ipotesi in cui aggravanti e attenuanti siano giudicate equivalenti, il giudice applicherà la pena che avrebbe inflitto ove non fosse stata presente alcuna circostanza (art. 69, terzo comma, cod. pen.), e dunque – nel caso di omicidio – la pena da ventuno a ventiquattro anni.

4.2.– La disposizione censurata dalle tre ordinanze di rimessione, introdotta dalla legge n. 69 del 2019, detta una regola derogatoria rispetto a quella, appena illustrata, discendente dai primi tre commi dell’art. 69 cod. pen., con riferimento specifico agli omicidi aggravati ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1), e secondo comma, cod. pen.

In particolare, l’art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen., prevede la pena dell’ergastolo quando il fatto sia commesso «contro l’ascendente o il discendente anche per effetto di adozione di minorenne o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva». Il secondo comma della medesima disposizione prevede invece la pena della reclusione da ventiquattro a trent’anni «se il fatto è commesso contro il coniuge divorziato, l’altra parte dell’unione civile, ove cessata, la persona legata al colpevole da stabile convivenza o relazione affettiva, ove cessate, il fratello o la sorella, l’adottante o l’adottato nei casi regolati dal titolo VIII del libro primo del codice civile, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta».

In presenza di queste specifiche aggravanti, il censurato art. 577, terzo comma, cod. pen. vieta al giudice di considerare prevalenti rispetto ad esse la generalità delle circostanze attenuanti. A tale divieto si sottraggono soltanto quattro attenuanti: i motivi di particolare valore morale o sociale (art. 62, primo comma, numero 1, cod. pen.); il vizio parziale di mente (art. 89 cod. pen.); la minore età (art. 98 cod. pen.); la partecipazione di minima importanza in caso di concorso di persone nel reato, ovvero l’ipotesi in cui taluno sia stato determinato da altri a commettere o a cooperare nel reato (art. 114 cod. pen.).

4.3.– Proprio di tale generale divieto si dolgono le tre ordinanze di rimessione, i cui petita sono peraltro circoscritti al divieto di prevalenza dell’attenuante della provocazione (ordinanza iscritta al n. 151 del r.o. 2022), ovvero al divieto di prevalenza sia della provocazione, sia delle attenuanti generiche (ordinanze iscritte al n. 87 e al n. 88 del r.o. 2023).

5.– Ciò premesso, le questioni sono fondate, per le ragioni qui di seguito riassunte.

Il delitto di omicidio può essere connotato, nei singoli casi concreti, da livelli di gravità notevolmente differenziati (infra, punto 5.1.). In conformità ai principi costituzionali di proporzionalità e individualizzazione della pena, il codice penale italiano consente in via generale di adeguare la pena dell’omicidio alla gravità della singola condotta, come accade – e in misura anche assai più marcata – in vari altri ordinamenti dalle comuni tradizioni giuridiche (infra, punto 5.2.). Tanto l’attenuante della provocazione quanto le attenuanti generiche sono strumenti essenziali a disposizione del giudice per adeguare la misura della pena alla concreta gravità del singolo fatto di omicidio (infra, punto 5.3.). Il divieto, stabilito dalla disposizione censurata, di applicare la diminuzione di pena prevista per queste due attenuanti nei casi di omicidi commessi in contesti familiari o para-familiari non si fonda su alcuna plausibile ragione giustificativa (infra, punto 5.4.). Tale divieto deve anzi ritenersi in contrasto con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., per plurime e concorrenti ragioni (infra, punto 5.5.). La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale che ne discende non si pone in contrasto con la finalità complessiva perseguita dal legislatore del 2019 di rafforzare la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, ma semplicemente evita che dalla legge n. 69 del 2019 discenda un effetto collaterale incongruo rispetto alla sua stessa ratio (infra, punto 5.6.).

5.1.– Ogni omicidio lede in maniera definitiva una vita umana. E poiché ciascuna persona ha pari dignità rispetto a tutte le altre, ogni omicidio parrebbe avere identico disvalore. Eppure, da sempre il diritto penale distingue – nell’ambito degli omicidi punibili – tra fatti più e meno gravi.

Già dal punto di vista oggettivo, alcune condotte omicide sono specialmente gravi: chi uccide la propria vittima dopo averle inflitto sofferenze prolungate, ad esempio, aggiunge ulteriore dolore al male di per sé insito nell’atto omicida. Ma è quando la condotta omicida venga riguardata dal lato dell’autore anziché da quello della vittima, che diviene agevole comprendere perché la gravità della condotta omicida sia suscettibile di significative graduazioni.

Anzitutto, la morte di una persona può essere causata con dolo, con preterintenzione, con colpa. Le conseguenze materiali dell’azione sono identiche: ma l’intensità di tale rimprovero è assai differente in ciascuna di tali ipotesi.

Nell’ambito poi degli omicidi dolosi riconducibili alla figura delittuosa di cui all’art. 575 cod. pen., le condotte sostenute da dolo intenzionale e diretto sono certamente più gravi rispetto a quelle compiute con dolo soltanto eventuale. A parità di intensità del dolo, inoltre, i motivi che hanno determinato l’autore all’azione omicida, così come le circostanze esterne nelle quali il proposito è maturato e la condotta è stata compiuta, incidono sul grado della rimproverabilità del suo autore, e dunque sulla misura della sua colpevolezza.

Dunque, l’unica figura legale di omicidio volontario abbraccia condotte dal disvalore soggettivo affatto differente: dall’assassinio compiuto da un sicario o da un membro di un gruppo criminale contro un esponente di una cosca rivale, alla brutale uccisione della moglie o della compagna, sino a condotte omicide come quelle descritte dalle odierne ordinanze di rimessione, maturate in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti posti in essere – colpevolmente o no – dalle stesse vittime; contesti, peraltro, di tale significatività da interrogare talvolta i giudici sulla possibile sussistenza della legittima difesa in capo agli autori dell’omicidio.

5.2.– Gradi di colpevolezza così differenti non possono non riflettersi nella misura della pena concretamente applicabile a chi abbia ucciso volontariamente un’altra persona.

5.2.1.– Ciò, anzitutto, per ragioni di ordine costituzionale.

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte sottolineato che il principio di proporzionalità della pena, desunto dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige «che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo », il quale a sua volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 94 del 2023, punto 10.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 55 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto).

Il principio della “personalità” della responsabilità penale, sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost., richiede d’altra parte che la pena applicata a ciascun autore di reato costituisca «una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato» (sentenza n. 222 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto).

5.2.2.– Il nostro sistema penale ha, peraltro, da sempre previsto meccanismi che consentono di graduare la risposta sanzionatoria per gli omicidi dolosi in funzione della loro concreta gravità.

Come già rammentato (supra, punto 4.1.), il codice penale prevede invero, per la forma base del delitto di omicidio volontario, un compasso edittale dai limiti particolarmente angusti, entro un minimo di ventuno e un massimo di ventiquattro anni. Al delitto sono però applicabili tutte le circostanze aggravanti comuni (la cui presenza può innalzare il massimo sino a trent’anni) e quelle speciali previste dagli artt. 576 e 577 cod. pen., la più parte delle quali può comportare la pena dell’ergastolo, in caso di assenza di attenuanti, o di ritenuta prevalenza delle stesse aggravanti rispetto ad eventuali attenuanti. Per altro verso, all’omicidio sono di regola applicabili tutte le circostanze attenuanti comuni di cui all’art. 62 cod. pen. nonché le attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., sicché – in caso di ritenuta prevalenza di queste ultime – il giudice avrà la possibilità di infliggere una pena anche sensibilmente inferiore al minimo edittale di ventun anni di reclusione – più precisamente, sino a un minimo di quattordici anni ove riconosca un’unica attenuante; di nove anni e quattro mesi, ove ne riconosca due; di sei anni, due mesi e venti giorni, ove ne riconosca tre; e così via.

Attraverso il flessibile strumento del bilanciamento tra le circostanze, il nostro ordinamento consente dunque al giudice di commisurare una pena maggiormente calibrata rispetto all’intensità del disvalore della singola condotta omicida, nel rispetto dei principi costituzionali appena menzionati, nonché di tener conto di ulteriori circostanze che – pur non incidendo sul minor grado di disvalore oggettivo o soggettivo del fatto di reato – esprimono tuttavia una minore necessità di applicare una pena nei confronti del suo autore, in considerazione ad esempio della sua condotta successiva al reato.

5.2.3.– Grazie al complesso delle circostanze attenuanti applicabili all’omicidio e alla loro possibile prevalenza nel giudizio di bilanciamento con eventuali aggravanti, le soluzioni sanzionatorie cui può pervenire il giudice italiano si avvicinano almeno in parte, negli esiti, a quelle cui è possibile giungere in numerosi altri ordinamenti contemporanei, nei quali l’articolazione delle diverse figure di omicidio volontario e delle relative circostanze attenuanti consente una significativa modulazione della risposta sanzionatoria, in ragione della diversa gravità di ciascuna condotta omicida.

A mero titolo di esempio, in Germania, le forme più gravi di omicidio volontario sono qualificate come Mord e sono punibili con l’ergastolo (§ 211 StGB), mentre tutte le altre ipotesi sono classificate come Totschlag, quest’ultimo punibile nella forma base con la pena non inferiore a cinque anni di reclusione (§ 212 StGB), e nei «casi meno gravi» descritti dal § 213 StGB (comprendenti in particolare l’ipotesi della provocazione) con la reclusione da uno a dieci anni. In Francia, ove il principio costituzionale dell’individualizzazione della pena si oppone in via generale alla previsione legislativa di minimi edittali, la pena per l’assassinio può addirittura spaziare da un minimo – in questo caso eccezionalmente previsto – di due anni di reclusione sino, nel massimo, all’ergastolo (art. 221-3 del codice penale francese); mentre per le ipotesi ordinarie di omicidio è previsto unicamente il massimo di trent’anni di reclusione (art. 221-1), restando poi il giudice del tutto libero di individuare la pena da applicare nel caso concreto.

5.3.– Le due circostanze attenuanti oggetto delle odierne questioni – la provocazione e le attenuanti generiche – svolgono un ruolo essenziale per assicurare, anche nell’ordinamento italiano, che la pena per l’omicidio volontario possa essere convenientemente ridotta rispetto al generale minimo edittale di ventun anni di reclusione, in casi caratterizzati da una minore offensività del fatto o minore colpevolezza dell’autore, ovvero dalla presenza di ragioni significative che comunque rivelano un suo minor bisogno di pena.

5.3.1.– Quanto alla provocazione, l’art. 62, primo comma, numero 2), cod. pen. stabilisce che la pena per qualsiasi reato sia attenuata, qualora il colpevole abbia «agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui».

Tale previsione si fonda sull’assunto della minore rimproverabilità di chi non agisca frigido pacatoque animo, bensì in un impeto d’ira che riduca le sue capacità di autocontrollo, ma solo a condizione che questo stato emotivo sia stato causato da un precedente «fatto ingiusto» compiuto dalla vittima stessa – anche in modo incolpevole, come accade quando quest’ultima sia una persona affetta da disturbi psichici (Cass., n. 14270 del 2012) –. Il precedente fatto ingiusto della vittima, pur non giustificando di per sé la reazione in assenza di tutti gli estremi della legittima difesa, la rende tuttavia meno censurabile.

Decisiva è, dunque, non soltanto l’intensità dell’emozione soggettivamente vissuta dall’autore, ma anche la ragione obiettiva (ovvero la “causa psicologica”) di tale emozione. In proposito, la costante giurisprudenza richiede un rapporto di obiettiva adeguatezza tra fatto ingiusto e reazione (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 16 febbraio-8 maggio 2023, n. 19150 e 27 marzo-16 maggio 2019, n. 21409), sì da poter escludere che il primo abbia costituito un mero pretesto per il compimento del reato, come accade ogni qualvolta la provocazione risulti del tutto incongrua rispetto all’entità della reazione (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 19 gennaio-16 marzo 2022, n. 8945; nello stesso senso, sentenza 14 novembre 2013-9 gennaio 2014, n. 604).

Inoltre, come correttamente sottolineano le tre ordinanze di rimessione, la recente giurisprudenza di legittimità ritiene che il fatto ingiusto sia integrato non soltanto da una puntuale condotta dalla vittima che immediatamente preceda la reazione dell’autore del reato, ma anche da una serie di condotte prevaricatrici susseguitesi nel tempo che, cumulativamente considerate, siano in grado di spiegare la reazione del provocato; e ciò anche quando il singolo episodio scatenante, isolatamente considerato, non possa essere ritenuto adeguato a spiegare l’entità della reazione (Cass., n. 19150 del 2023; nello stesso senso: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 maggio-7 giugno 2017, n. 28292; sezione quinta penale, sentenza 4 luglio-10 dicembre 2014, n. 51237; sezione prima penale, sentenza 8 ottobre-18 dicembre 2013, n. 51041; sezione prima penale, sentenza 13 gennaio-9 febbraio 2011, n. 4695).

Il che è di particolare rilievo nelle ipotesi di omicidio maturate in contesti domestici o comunque nell’ambito di relazioni affettive, in cui la causa dell’atto omicida è spesso da ricercarsi nella complessiva dinamica dei rapporti tra autore e vittima, piuttosto che nell’ultimo episodio che immediatamente scatena la sua reazione. In questi contesti, accade in effetti con una certa frequenza che l’atto omicida sia compiuto in occasione dell’ennesima condotta aggressiva della vittima, ovvero subito dopo di essa, in esito a una lunga storia di abusi e maltrattamenti; e che la reazione ecceda a quel punto i limiti della legittima difesa – vuoi per difetto di necessità o proporzione della condotta rispetto all’aggressione, vuoi perché la stessa aggressione si sia in quel momento già esaurita –, ma resti connotata da una minore gravità rispetto alla generalità degli omicidi volontari, in considerazione tra l’altro del turbamento emotivo provocato nell’agente dalle condotte prevaricatrici compiute, a suo danno, dalla vittima.

5.3.2.– Almeno altrettanto importante è però il ruolo svolto dalle attenuanti generiche rispetto alla generalità degli omicidi, specie a fronte di una cornice sanzionatoria che prevede una soglia minima di pena detentiva tanto elevata.

Anche le attenuanti generiche sono un istituto fortemente radicato nella storia del diritto penale italiano: già previste dal codice Zanardelli, esse furono temporaneamente abolite nel 1930, per essere reintrodotte – all’indomani della caduta del regime fascista – con il decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), anche allo scopo di temperare la generale asprezza delle pene previste dal codice Rocco. Contrariamente a quanto sostenuto in udienza dall’Avvocatura generale dello Stato, esse non svolgono nel sistema una funzione genericamente indulgenziale, quasi si trattasse di un beneficio sistematicamente concesso a qualsiasi condannato. Come si è osservato in dottrina, alle attenuanti generiche compete piuttosto l’essenziale funzione di attribuire rilevanza, ai fini della commisurazione della sanzione, a specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato o del suo autore – non tipizzabili ex ante dal legislatore in ragione della loro estrema varietà, e diverse da quelle che già integrano ipotesi “nominate” di attenuazione della pena – che connotano il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre.

A integrare le attenuanti generiche possono essere, anzitutto, circostanze espressive di una minore offensività o di una minore colpevolezza del fatto, quest’ultima in ragione della particolare intensità e comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commetterlo, ovvero della presenza di anomale circostanze concomitanti alla sua condotta, in grado di limitare significativamente la sua libertà.

In secondo luogo, l’art. 62-bis cod. pen. consente al giudice di valorizzare tutti gli ulteriori parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. (Cass., n. 20808 del 2019), comprese le circostanze sopravvenute al fatto di reato, o comunque inerenti alla persona dell’autore, che siano indicative di una sua minore pericolosità, o che comunque la rendano meno meritevole e bisognosa di pena.

Su tale profilo questa Corte ha richiamato l’attenzione con la sentenza n. 183 del 2011, con la quale è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una modifica dell’art. 62-bis cod. pen., operata nel 2005, con la quale si precludeva in effetti al giudice di tenere conto, ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, della «condotta susseguente al reato» da parte del condannato recidivo reiterato: previsione che è stata in quell’occasione ritenuta in contrasto con i principi di ragionevolezza e di funzione rieducativa della pena di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., i quali impongono che – nella commisurazione della pena, e in particolare in sede di valutazione della sussistenza delle attenuanti generiche – debba poter «assumere rilevanza […] una condotta, successiva al reato, indicativa di una positiva evoluzione in atto della personalità del condannato» (punto 7 del Considerato in diritto).

Più in generale, come spesso sottolineato dalla dottrina, le attenuanti generiche costituiscono il luogo privilegiato in cui possono trovare spazio, nella fase di determinazione giudiziale della pena, considerazioni di equità e di umana “compassione” nei confronti dell’autore del reato, in ragione delle circostanze individuali nelle quali si è trovato ad agire all’epoca del fatto, o versa al momento della condanna: dall’immaturità connessa alla giovane età dell’autore o alla sua età particolarmente avanzata, alla presenza di disturbi della personalità che non attingano la soglia del vizio parziale di mente, a traumi subiti nella propria storia personale, a condizioni economiche o sociali particolarmente disagiate, ovvero a condotte successive come l’immediata e spontanea autodenuncia, la piena collaborazione processuale, le attività di studio o lavoro intraprese nell’attesa del processo.

L’attenta e puntuale considerazione di tutti questi e molti altri simili fattori è particolarmente importante nei processi per omicidio volontario, dove il legislatore italiano ha non a caso stabilito che il processo si svolga di regola innanzi a una corte a composizione mista, in cui i giudici popolari sono anch’essi chiamati ad apprezzare e “pesare”, ai fini della determinazione della risposta sanzionatoria, le ragioni che hanno indotto l’imputato ad agire, le circostanze nelle quali ha agito, e i singoli elementi che compongono la sua personalità. Una valutazione, questa, che ha sede naturale proprio nell’art. 62-bis cod. pen., e nella quale l’esperienza di vita del giudicante conta più delle indicazioni del legislatore. Il quale si confessa, anzi, incapace di tipizzare tutte le possibili sfaccettature della realtà, affidando direttamente al giudice il compito di cogliere i segni di una comune umanità anche in chi abbia compiuto un delitto così grave come l’omicidio.

5.4.– Ora, la disposizione in questa sede censurata determina una drastica limitazione del potere del giudice di calibrare la pena al disvalore effettivo del fatto compiuto, precludendogli di considerare prevalenti tanto la provocazione, quanto le attenuanti generiche, rispetto all’aggravante dell’avere commesso il fatto in un contesto familiare o para-familiare.

Non è agevole, tuttavia, individuare la ratio di un tale assoluto divieto.

5.4.1.– L’attuale terzo comma dell’art. 577 cod. pen. è stato introdotto, come si è supra osservato (punto 4.2.), dalla legge n. 69 del 2019 (cosiddetto “Codice Rosso”), mirante nel suo complesso – come risulta dalla stessa denominazione ufficiale della legge – al rafforzamento della «tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», come definite dalle pertinenti convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria e il cui rispetto il legislatore si proponeva di garantire – prima fra tutte, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (cosiddetta “Convenzione di Istanbul”), ratificata con la legge 27 giugno 2013, n. 77 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011).

L’art. 3 di tale convenzione definisce, in particolare, la «violenza nei confronti delle donne» come «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata»; e identifica la «violenza domestica» in «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

In coerenza con questo generale scopo di tutela, il “Codice Rosso” arricchisce ulteriormente l’arsenale di misure volte non solo ad assicurare severe sanzioni penali a carico degli autori di vittime di violenza contro le donne o di violenza familiare – in particolare attraverso l’innalzamento delle pene previste per il delitto di maltrattamenti in famiglia –, ma anche a potenziare gli strumenti idonei a consentire un’efficace e tempestiva protezione delle vittime da parte della forza pubblica: ad esempio, attraverso la possibilità di utilizzare strumenti di controllo elettronico nei confronti delle persone sottoposte alla misura cautelare del divieto di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all’art. 282-ter cod. proc. pen.; la previsione, all’art. 387-bis cod. pen., del delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; la subordinazione della sospensione condizionale della pena per reati in materia di violenza contro le donne o domestica alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati (art. 165 cod. pen.); misure di formazione specifica per gli addetti ai lavori nella lotta contro la violenza domestica e di genere (art. 5 della legge n. 69 del 2019).

5.4.2.– Per quanto concerne specificamente il terzo comma dell’art. 577 cod. pen., oggetto delle censure dei rimettenti, la sua introduzione è dovuta all’emendamento n. 6.104, approvato nella seduta della Camera dei deputati nella nuova formulazione n. 01.04, e poi approvato senza modifiche dal Senato.

Dai lavori preparatori non emerge l’intendimento dei proponenti dell’emendamento. Peraltro, è evidente come il legislatore abbia inteso, in via generale, inasprire ulteriormente la risposta sanzionatoria contro gli omicidi commessi all’interno di relazioni familiari o affettive, specie a danno delle donne e comunque dei soggetti più vulnerabili all’interno di tali contesti, limitando il potere del giudice di determinare la pena per tali omicidi – punibili con l’ergastolo in assenza di circostanze attenuanti – al di sotto dei ventun anni di reclusione.

Si è ipotizzato in dottrina che la selezione delle sole quattro circostanze attenuanti sottratte al divieto di bilanciamento sia dovuta al timore che il giudice possa troppo generosamente riconoscere e ritenere prevalenti altre attenuanti, e in particolare la provocazione ovvero le attenuanti generiche; e ciò specialmente in situazioni in cui l’autore dell’omicidio agisca in preda al turbamento emotivo provocato da circostanze come la gelosia nei confronti del partner, il rifiuto di accettare la conclusione di una relazione, un distorto senso di possesso nei confronti della vittima, o ancora – in particolari contesti socio-culturali – il timore del “disonore” ricadente su se stesso e sulla propria famiglia, derivante da comportamenti a suo avviso inappropriati della vittima.

5.4.3.– Sul punto, occorre però rilevare che simili preoccupazioni non trovano riscontro nella giurisprudenza di legittimità, che è invece compatta nel rigettare allegazioni difensive miranti al riconoscimento della provocazione in casi come quelli ora menzionati. In queste ipotesi, infatti, si ritiene che difetti in radice un “fatto ingiusto” della vittima (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 14-luglio-22 settembre 2023, n. 38755, 3 marzo-10 giugno 2021, n. 23031 e 25 settembre-13 dicembre 2017, n. 55741), o che comunque sussista una grave e macroscopica incongruenza fra il fatto scatenante e la reazione (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 4 luglio-10 dicembre 2014, n. 51237). La tendenza della giurisprudenza di legittimità è, semmai, quella di riconoscere in simili ipotesi la circostanza aggravante dei futili motivi (in questo senso, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 giugno-3 novembre 2021, n. 39323; nello stesso senso, sentenza 21 maggio-30 ottobre 2019, n. 44319).

È d’altra parte da escludere che il mero dato psicologico di un forte turbamento emotivo possa essere ritenuto sufficiente a esprimere un minor contenuto di colpevolezza in capo all’autore di una simile condotta, e giustificare pertanto, di per sé, il riconoscimento delle attenuanti generiche (sul punto, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 8 novembre 2019-24 gennaio 2020, n. 2962). Non l’intensità della spinta psicologica è infatti decisiva ai fini del giudizio di minore colpevolezza, ma la valutazione in termini di umana comprensibilità delle ragioni che spingono il soggetto ad agire, seppure in maniera contraria alla legge penale. Il che non potrebbe certo ipotizzarsi, alla luce dell’attuale sensibilità sociale e giuridica, in casi come quelli poc’anzi menzionati.

5.5.– In assenza di ogni plausibile ratio giustificativa, ulteriore rispetto alla generica volontà di assicurare un trattamento sanzionatorio particolarmente severo per tutti i casi di omicidio commesso nell’ambito di relazioni familiari o affettive, la disposizione censurata non supera il vaglio di legittimità costituzionale sollecitato dai giudici quibus.

È ben vero che, come questa Corte ha più volte affermato in via di principio, non può ritenersi precluso al legislatore introdurre deroghe al regime del bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 cod. pen., nell’esercizio della propria discrezionalità (sentenza n. 143 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto; sentenza n. 205 del 2017, punto 4 del Considerato in diritto).

Tuttavia, le eventuali deroghe al criterio generale di cui ai primi tre commi dell’art. 69 cod. pen. non debbono risultare in contrasto con i principi costituzionali. Il che invece accade con la disposizione ora censurata, sotto più concorrenti profili.

5.5.1.– L’art. 577, terzo comma, cod. pen. viola, in primo luogo, il principio di eguaglianza davanti alla legge di cui all’art. 3 Cost., che vieta non solo irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe, ma anche irragionevoli equiparazioni di trattamento tra situazioni tra loro dissimili (in questo senso, in materia di sanzioni penali, già la sentenza n. 26 del 1979, punto 1 del Considerato in diritto). In materia di commisurazione della pena, tale divieto deve essere altresì letto alla luce del principio di “personalità” della responsabilità penale sancito dall’art. 27, primo comma, Cost., il quale esige che la pena costituisca una risposta il più possibile “individualizzata” rispetto alla situazione del singolo condannato (supra, punto 5.2.1.).

Come rilevato dalla difesa dell’imputato nel caso di cui all’ordinanza iscritta al n. 151 del r.o. 2022, la disposizione censurata impone al giudice di applicare – ove non sussista alcuna delle circostanze sottratte al divieto di bilanciamento – una pena non inferiore a ventun anni di reclusione per tutti i fatti di omicidio commessi all’interno di contesti familiari e affettivi, indipendentemente dal grado di colpevolezza dei loro autori, oltre che dal grado di pericolosità degli autori medesimi; con ciò impedendo che le differenze di disvalore soggettivo tra più fatti di omicidio, e tra i diversi livelli di pericolosità di più autori, possano concretamente riflettersi nella misura della pena a ciascuno applicabile.

5.5.2.– La considerazione che precede evidenzia, in secondo luogo, una irragionevole disparità di trattamento tra gli omicidi commessi all’interno di contesti familiari e affettivi e la generalità degli omicidi volontari, ai quali il divieto di prevalenza delle attenuanti previsto dalla disposizione censurata non è applicabile: ciò che ridonda in un ulteriore profilo di violazione dell’art. 3 Cost.

Non v’è infatti alcuna ragione plausibile per considerare sempre e necessariamente più grave un fatto riconducibile a questa specifica tipologia di omicidi rispetto a ogni altra condotta omicida. Non coglie nel segno, sotto questo profilo, l’argomento speso – nelle proprie difese scritte e in udienza – dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui la particolare gravità degli omicidi intrafamiliari deriverebbe, in sostanza, dalla violazione del divieto ancestrale di versare sangue all’interno della propria stirpe. All’argomento della intrinseca maggiore gravità degli omicidi intrafamiliari – o comunque commessi all’interno di relazioni affettive – può in effetti agevolmente replicarsi che proprio in questi contesti non infrequentemente maturano tensioni, risentimenti, frustrazioni determinati da comportamenti aggressivi di taluno dei protagonisti della relazione, che sono alla base della reazione omicida.

5.5.3.– La disposizione censurata risulta, in terzo luogo, intrinsecamente irragionevole, in violazione ancora dell’art. 3 Cost., nella misura in cui prevede che una sola circostanza aggravante – per quanto significativa, come il rapporto familiare o affettivo tra autore e vittima – abbia l’effetto di impedire un giudizio di prevalenza di una pluralità di circostanze attenuanti.

E ciò anche a fronte di situazioni emblematiche come quelle oggetto dei tre giudizi quibus, nei quali l’atto omicida è maturato in contesti familiari caratterizzati dal gravissimo disagio, e anzi dall’acuta sofferenza, in cui da anni versavano gli autori del reato per effetto dei comportamenti aggressivi delle rispettive vittime. Autori, peraltro, rispetto ai quali difficilmente potrebbero invocarsi significative ragioni di natura specialpreventiva tali da giustificare una loro prolungata detenzione, come dimostra il fatto che in almeno due dei casi oggetto dei procedimenti principali non risulta siano mai state adottate misure cautelari custodiali nei confronti dei rispettivi imputati, sull’evidente presupposto dell’assenza di una qualsivoglia loro pericolosità sociale.

Tutti questi elementi, che il giudice è di solito tenuto a considerare per calibrare la risposta sanzionatoria, vengono qui condannati all’invisibilità, per effetto di una disposizione che consente – soltanto – di neutralizzare il disvalore stigmatizzato, in via generale, dall’unica circostanza del rapporto familiare o affettivo tra autore e vittima.

5.5.4.– In quarto luogo, la disposizione censurata produce – almeno rispetto a una parte dei casi compresi nel suo ambito applicativo – risultati incoerenti rispetto al proprio stesso scopo di tutela: ciò che integra un ulteriore profilo di contrasto con l’art. 3 Cost. della disposizione, sotto il profilo della sua irrazionalità intrinseca (sentenze n. 186 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto, e n. 166 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto).

Come nella sostanza sottolineano tutte le ordinanze di rimessione, alla luce dell’impianto complessivo della legge n. 69 del 2019 è verosimile che il legislatore abbia inteso, con il nuovo ultimo comma dell’art. 577 cod. pen., assicurare una più energica reazione sanzionatoria contro soggetti già autori di maltrattamenti e prevaricazioni nei confronti di persone vulnerabili a loro legate da relazioni familiari e affettive, i quali – al culmine di una spirale di violenza – uccidano queste stesse persone.

I casi oggetto dei giudizi quibus sono invece relativi a situazioni in cui è il soggetto che ha subìto per anni comportamenti aggressivi a compiere l’atto omicida, per effetto di una improvvisa perdita di autocontrollo causata dalla serie innumerevole di prevaricazioni cui era stato sottoposto.

Ciò determina, rispetto a casi come quelli oggetto dei giudizi quibus, una sorta di eterogenesi dei fini perseguiti dal legislatore. La disposizione censurata finisce infatti, in simili casi, per aggravare la risposta sanzionatoria a carico dei soggetti più vulnerabili all’interno di relazioni familiari o affettive, che per anni abbiano subito comportamenti aggressivi e prevaricatori; e dunque ridonda a danno proprio di quelle persone che il complessivo impianto della legge n. 69 del 2019 vorrebbe invece più efficacemente proteggere.

5.5.5.– Infine, come parimenti denunciato da tutte le ordinanze di rimessione (e come già rilevato in sede di lavori preparatori: verbale della seduta del 2 aprile 2019, nonché parere espresso dall’Unione delle Camere penali nel corso dell’audizione svoltasi l’11 giugno 2019 avanti alla Commissione 2ª, Giustizia, del Senato), la disposizione censurata viola il principio di proporzionalità delle pene, desumibile dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.; principio che questa Corte ha in ormai numerose occasioni ritenuto vulnerato dal divieto, strutturalmente analogo, di prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto all’aggravante della recidiva reiterata sancito dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. (per una recente ampia ricognizione di questa giurisprudenza, sentenza n. 94 del 2023, punto 10 del Considerato in diritto; nonché, successivamente, sentenze n. 141 del 2023 e n. 188 del 2023).

In questi precedenti, si è in particolare affermato che il principio di proporzionalità delle pene è violato laddove il divieto legislativo di bilanciamento tra circostanze impedisca al giudice di attribuire adeguato rilievo, sul piano della commisurazione della sanzione, a circostanze attenuanti espressive, oltre che di una minore offensività, di una minore colpevolezza dell’autore, che è componente essenziale per la determinazione del disvalore complessivo del fatto di reato (sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; nonché, rispetto alla diminuente di cui all’art. 116 cod. pen., parimenti espressiva di un ridotto disvalore soggettivo del fatto, sentenza n. 55 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto).

E si è altresì evidenziato come il vulnus in parola non possa ritenersi di per sé escluso quando il divieto di prevalenza si riferisca a una circostanza a effetto comune, comportante come tale una riduzione sino a un terzo della pena base, dal momento che «l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base […] ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno» (ancora, sentenza n. 73 del 2020, punto 4.3. del Considerato in diritto). Ciò che ha condotto questa Corte, in ormai numerose occasioni, a dichiarare costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. a varie circostanze attenuanti a effetto comune (si vedano, oltre alla sentenza n. 73 del 2020 appena citata, le sentenze n. 141 del 2023, n. 143 e n. 55 del 2021).

In coerenza con questi precedenti, anche in questo caso non può che ritenersi violato il principio di proporzionalità della pena. L’attenuante della provocazione è intrinsecamente indicativa di una minore colpevolezza dell’autore (supra, punto 5.3.1.); e le attenuanti generiche sono anch’esse idonee a intercettare ulteriori elementi – distinti da quelli già valorizzabili agli effetti della provocazione – essi pure, nella più parte di casi, indicativi di una minore colpevolezza, come la giovane età della vittima e l’eventuale immaturo sviluppo della sua sfera emotiva, ovvero disturbi della personalità (eventualmente anche ingenerati da situazioni familiari di grave disagio) ancora non idonei ad assurgere a un vizio parziale di mente (supra, punto 5.3.2.).

Lo sbarramento determinato dalla disposizione censurata produce, d’altra parte, l’effetto di impedire agli imputati in tali procedimenti di beneficiare di una, e talvolta anche di due, attenuazioni di pena pari ciascuna a un terzo della pena: il che, rispetto a un delitto punito nella forma base con la pena minima di ventun anni di reclusione – non riducibili per effetto della scelta del giudizio abbreviato, preclusa oggi dall’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. –, è suscettibile di tradursi in numerosi anni di reclusione in più rispetto a quanto risulterebbe dall’applicazione dell’ordinaria disciplina di cui all’art. 69 cod. pen.

5.6.– L’odierna dichiarazione di illegittimità costituzionale non contraddice in alcun modo la legittima, ed anzi certamente apprezzabile, finalità di tutela perseguita dal legislatore con l’approvazione del “Codice Rosso”, avvenuta sulla base di un consenso trasversale raggiunto tra le forze politiche nel 2019.

Le statistiche annue sui femminicidi, sulle quali ha insistito l’Avvocatura generale dello Stato negli atti di intervento e nella discussione orale, dimostrano la necessità per il legislatore di intervenire con misure incisive, preventive e repressive, per contrastare efficacemente questo drammatico fenomeno, nonché la generalità dei fenomeni di violenza e abusi commessi nell’ambito di relazioni familiari e affettive.

Ciò che le ordinanze di rimessione hanno posto in discussione è, però, la risposta sanzionatoria manifestamente sproporzionata che l’introduzione dell’art. 577, terzo comma, Cost. provoca rispetto a casi del tutto eterogenei rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore: casi, cioè, in cui è proprio la persona vulnerabile, vittima di reiterati comportamenti aggressivi all’interno del proprio contesto familiare, a compiere alla fine un atto omicida, sospinta dall’esasperazione per una situazione percepita come non più tollerabile. Una tale risposta costituisce un effetto collaterale, di natura per così dire “preterintenzionale”, prodotto da una disposizione pure sostenuta da una finalità legittima, che tuttavia, nell’impatto con la varietà dei casi reali, determina anche risultati incongrui rispetto a quella stessa finalità (per un caso simile in materia di misura della pena, sentenza n. 68 del 2012, punto 3 del Considerato in diritto; più in generale sull’eccesso nel perseguimento di fini legittimi da parte del legislatore, sentenze n. 184 del 2013, punto 6.5. del Considerato in diritto, e n. 20 del 2019, punto 5.4. del Considerato in diritto).

Il rimedio a tale vizio non può che essere il ripristino dei poteri discrezionali del giudice (analogamente, sentenza n. 102 del 2020, punto 5.4. del Considerato in diritto), sì da evitare che il divieto di prevalenza delle attenuanti operi in casi non coerenti rispetto alla ratio della disposizione stessa. Più precisamente, la soluzione “naturale” è quella di lasciare che si riespandano, per effetto dell’odierna dichiarazione di illegittimità costituzionale, quei poteri di cui dispongono normalmente, in forza della previsione generale di cui all’art. 69 cod. pen., le corti d’assise: al cui prudente apprezzamento – “tecnico” e “umano” allo stesso tempo – il legislatore del 2019 ha scelto di affidare la generalità dei procedimenti per gli omicidi astrattamente punibili con la pena dell’ergastolo (sull’impianto complessivo della legge 12 aprile 2019, n. 33, recante «Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo», sentenza n. 260 del 2020, nonché – su profili più specifici – sentenza n. 207 del 2022 e ordinanza n. 214 del 2021).

5.7.– In conclusione, l’art. 577, terzo comma, cod. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nei limiti sottoposti dalle ordinanze di rimessione allo scrutinio di questa Corte: ossia nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti della provocazione di cui all’art. 62, primo comma, numero 2), cod. pen. e le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis cod. pen.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 ottobre 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 ottobre 2023